LA TEMPESTA (DIDASCALIA PER UN’AMICA)


Camminava di buon passo immersa nei suoi pensieri, cercando in realtà di liberarsene per assaporare in pace un momento di solitudine, quando si accorse all’improvviso che la luce era cambiata e la sua ombra a terra era scomparsa.
Alzò lo sguardo e constatò che il cielo era ancora azzurro, poi si voltò e la vide: una cosa enorme, nero bluastra, avanzava minacciosa alle sue spalle. Pensò subito che l’avrebbe inghiottita, e di lei non si sarebbe saputo più nulla.

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Si diede subito della sciocca per quel pensiero ridicolo, ma l’istinto di fuga era davvero forte. Aveva camminato per un’ora buona, quindi ci avrebbe messo altrettanto per tornare verso casa; puntò decisa per la via più breve, verso il boschetto di noci.
Si tolse gli inutili occhiali da sole mentre un cupo brontolio rotolava crepitando in stereofonia. Si girò in tempo per scorgere un lampo che squarciò la nube per un istante, seguito da uno scricchiolio preoccupante e poi da un tuono che le scosse lo stomaco.
Poi, all’improvviso, uno scroscio d’acqua le si rovesciò addosso. Notò che la nube aveva assunto la forma classica della tromba d’aria, ed ebbe paura.
Si rammentò della sua bisnonna materna che era morta colpita da un fulmine perché si era rifugiata sotto un grande olmo, quando fu sorpresa da un temporale mentre lavorava in campagna, e realizzò che sarebbe stato imprudente infilarsi tra gli alberi con un tempo del genere; doveva quindi cambiare percorso, ovvero tornare sui suoi passi e camminare in direzione di quella cosa mostruosa.
La pioggia le frustava le gambe nude, era ormai fradicia, scarpe comprese, calzoncini e maglietta le si erano appiccicati addosso; nel frattempo si era anche alzato un vento impetuoso e pluridirezionale che sembrava volesse bloccarla in quel posto e in quel momento.
Paura.
Si raggomitolò abbracciandosi le ginocchia, in mezzo alla strada, tanto di lì non passava mai nessuno (ecco, non passava mai nessuno), e ad un tratto le tornò alla mente uno dei tanti mantra materni: “quando sei in difficoltà chiediti sempre “quale è la cosa peggiore che potrebbe capitarmi?” e preparati ad affrontarla, come puoi”.
Bene, quale era la cosa peggiore che avrebbe potuto capitarle in quel momento? Non c’erano corsi d’acqua nelle vicinanze, quindi il rischio esondazione era scongiurato. Non c’erano nemmeno case che potessero crollare, e gli alberi avrebbe potuto evitarli. Nel frattempo, in un frastuono di tuoni e con uno pirotecnico spettacolo di lampi la cosa nera si era allargata divenendo ancora più cupa, ma se non altro non sembrava più portare nel suo cuore malevolo una tromba d’aria.
Restava la grandine. Una volta erano caduti chicchi di grandine grandi come palline da tennis, uno di quelli in testa l’avrebbe tramortita. Si accorse che sulla strada, in prossimità di una vigna, qualche maleducato aveva abbandonato una cassetta di legno. Si alzò, la prese, la brandì con entrambe le mani e la tenne sopra la testa: l’avrebbe riparata dalla grandine, che puntualmente arrivò.
Paura.
Riprese il cammino a passo sostenuto, guardò la cosa nera e gridò “che altro vuoi da me? Di cosa mi stai punendo, dove ho sbagliato?”.
Una luce accecante, un rumore come di legni rotti, il cuore nelle orecchie: un fulmine si era scaricato da qualche parte. Si chiese se fosse poi una buona idea tenersi una cassetta di legno sopra la testa, e decise che forse no, così la restituì alla vigna.
Nel frattempo, aveva smesso di grandinare, anche se la pioggia continuava a cadere furiosa.
Paura.

Uscì un attimo da sé stessa e si vide camminare in mezzo a una strada tra le vigne, con i capelli incollati alla fronte e al collo e la pelle d’oca alta un centimetro sulle gambe, le braccia rigide e i pugni chiusi, a gridare la sua frustrazione a una nube nera che osservava impassibile la sua paura di non farcela.
Abbassò la testa e continuò a camminare, ma gridò un’ultima cosa al cielo: “sai che ti dico? Ce la farò a tornare a casa, questa volta e tante altre volte ancora”.
Non pensò più alla pioggia, al vento, alla nube, né badò più al rumoreggiare dei tuoni. Pensò solo a camminare verso casa, a testa bassa, con determinazione.
E quando alzò di nuovo lo sguardo, inaspettatamente colpita da un raggio di sole, si accorse che aveva quasi raggiunto casa, e un arcobaleno attraversava il cielo che stava ritornando sereno.

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Scosse la testa spargendo gocce d’acqua tutto attorno, lisciò con le mani calzoncini e maglietta, batté i piedi (sentì le scarpe fare “sguisc sguisc”), si rimise gli occhiali da sole.
E pensò che forse davvero alla base dell’arcobaleno c’è una pentola piena di monete d’oro.
Dopotutto, qualche volta saper leggere le favole aiuta.

3 comments

  1. Girolamo · febbraio 5, 2015

    Le favole aiutano così come i sogni, e la voglia di vivere allontana la paura. Brava! 🙂

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