L’INCONTRO


Aveva pianto molto. Si era anche arrabbiata molto, poi aveva provato a razionalizzare cercando i perché e i percome più sotterranei, ed infine si era assunta delle responsabilità che probabilmente non aveva.
Non tutte, comunque.

Si era allontanata dalla cerchia di amicizie condivise, aveva cambiato l’arredamento dell’appartamento lasciatole dei genitori, nel quale era tornata a vivere dopo la separazione, aveva cambiato lavoro e taglio di capelli (come qualsiasi femmina in crisi), aveva bruciato foto e lettere  e si era anche comprata una Mini amaranto che le piaceva da tempo.

Aveva molto riflettuto sul principio affermato da Nietzsche (filosofo che peraltro non aveva mai amato) che “tutto ciò che non mi uccide mi rende più forte” ed aveva concluso che era vero, ma per quel che la riguardava la sua solidità era legata ad una sorta di avarizia sentimentale per effetto della quale non si era mai più data totalmente. Non è che se lo fosse imposto, era successo e basta.

Inevitabilmente, e più spesso tra una storia e l’altra, qualche volta si era chiesta che fine avesse fatto Nando, se si fosse fermato accanto alla donna per la quale l’aveva lasciata. Ma non aveva mai fatto nulla per trovare risposta a queste domande, aveva cercato a poco a poco di allontanarsi dall’immagine di lui  e dal pericoloso potere evocativo del crogiolarsi nei ricordi. Pativa spesso la mancanza di quel senso di completezza e di costante calore, irrimediabilmente perduti da quando lui se ne era andato.

Lo rivide un sabato sera d’inverno in Brera, al Bar Jamaica, dove si era recata per chiudere la serata con alcuni amici  con i quali si era incontrata al Rose’s Club, locale prediletto dai trentenni rampanti, che si trovava proprio dietro al Gin Rosa, in piazza San Babila.

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Il Jamaica era pieno di gente e di fumo (non era ancora scattato il divieto di fumare nei luoghi pubblici), i vetri appannati dall’alito di molte conversazioni. Si erano appena seduti, dopo un’attesa di mezz’ora perché si liberasse un tavolo, quando lo scorse al banco del bar.

Come quando lo incontrò la prima volta, primavera di molti anni prima.

Mi starò sbagliando, non ci vedo una mazza, non può essere Nando, pensò. Strizzò gli occhi e lui girò il volto verso di lei, come rispondendo ad un richiamo. Non si era sbagliata, era lui: leggermente ingrassato – accettabilmente ingrassato – sempre con i baffi, jeans e dolcevita nero sotto un cappotto grigio. Notò che si stava allontanando dal banco del bar per muoversi deciso verso di lei, con quell’incedere elastico ed elegante che ricordava tanto bene.

Lei mormorò un frettoloso “scusate, torno subito” agli amici e scattò in piedi con un unico movimento rigido, come se fosse dotata di molle di cui avesse perso il controllo.

Si trovarono presto l’uno di fronte all’altra, lei respirò il suo odore, lui disse “sei proprio tu”, lei ” e già”.  “Dopo tutti questi anni”. A lei venne di nuovo in mente “e già”, avendo momentaneamente -sperava- smarrito il  ricco vocabolario di cui solitamente disponeva. “Sei solo”. “Sì”.

Piantati in mezzo al locale costringevano i camerieri a deviare il loro già difficile percorso. Lui disse “se andassimo via da qui?”. Lei avrebbe dovuto rispondere “ehi ciccio, è lo stesso film di dieci anni fa, l’ho già visto e so come va a finire” o più elegantemente “sorry, io non sono sola, sono qui con degli amici”. Invece disse “va bene, aspettami fuori”.

Dirigendosi verso il tavolo che avevano occupato, lei si accorse del battito furioso del  cuore e della mollezza delle  gambe. “Ragazzi, io devo andare. Ci si vede” Erano amici per modo di dire, in realtà più provvisori compagni di strada, e nessuno fece domande.

A quel punto avrebbe dovuto chiedersi cosa si aspettava da quell’incontro, e invece uscì quasi di corsa, temendo di non trovarlo più. Ma lui era davanti alla porta, con il bavero del cappotto rialzato, e nuvolette di vapore freddo uscirono dalla sua bocca quando disse “io sono a piedi, abito qui vicino”.  “Io ho la macchina in via Fiori Oscuri”.

Lui la seguì, camminava al suo fianco tenendo il medesimo passo e di tanto in tanto la osservava con un’ombra di sorriso sotto i baffi.

“Sei cambiata. Tutti questi capelli ti danno un’aria molto fiera. Un pò…aggressiva” .   “Li ho lasciati crescere e ho smesso di stirarli, sì. Non so se ho un’aria aggressiva. Non so nemmeno se sono fiera di qualcosa. Questa è la mia macchina”.

Lui salì senza esitazioni. Lei  mise in moto e lo guardò: “Cosa vuoi fare?” Lo stava chiedendo a se stessa, e non capiva la risposta, troppa confusione, pensieri ed emozioni irrimediabilmente aggrovigliati.

“Vorrei parlare un pò con te, via dalla gente, via dai rumori. Ho tempo fino a domani”. Lei non disse nulla. Si immise su via Fiori Oscuri e proseguì per via Dei Giardini. Via Montebello, via Turati, largo Donegani.  Erano ormai le due e non erano ancora tempi di movida, il traffico era scarso e in dieci minuti giunsero in via Casati, dove lei abitava. Lui continuava a guardarla in silenzio, “Abiti sempre qui”. “Sì. I miei si sono trasferiti ad Arona, mamma è in pensione e papà presta ancora qualche consulenza a Milano, si ferma qui da me quando gli occorre, ma ormai si sono stabiliti sul lago”. Il cancello automatico si aprì con la consueta lentezza, lei parcheggiò l’auto nel garage sotterraneo e si diressero verso l’ascensore.

Entrati in casa, lei accese subito tutte le luci – come se avesse paura del buio, ma di quale buio? – mentre lui, le mani nelle tasche del cappotto, si guardava attorno incuriosito. “Hai cambiato tutto, niente è come lo ricordavo”. “Era la casa dei miei genitori, ho voluto che diventasse casa mia. E tutto cambia, infine, e non è mai come te lo ricordavi. Se hai tempo fino a domani, ti conviene togliere il cappotto”.

Lui non pareva turbato da quel suo interloquire brusco, e si accomodò sul divano mentre lei prendeva due bicchieri e li riempiva di Porto. Antica abitudine mai dismessa.  Si sedette ad una ragionevole distanza da lui e trovò il coraggio di osservarlo bene: dieci anni avevano lasciato qualche segno intorno agli occhi e alla bocca, ma tutto nel suo aspetto le era familiare come se lo avesse salutato la sera prima. Per esempio, quelle  mani gentili dalle dita affusolate, e quel modo composto di sedersi un pò di lato, con le gambe accavallate.

“Vivi da sola. Lavori sempre a Cinisello?”

“Vivo da sola, come vedi. Non lavoro più là; sono tornata all’Università ma ho abbandonato Lettere e mi sono laureata in Filosofia: inutile per inutile, ho scelto una facoltà che mi interessava di più. Ora lavoro all’ufficio marketing di un’azienda farmaceutica, impegnativo ma divertente, e la laurea in filosofia non mi serve a un cazzo,come previsto, ma sono contenta di aver fatto quegli studi”.

Silenzio. Secondo bicchiere di Porto. Lui aveva lo sguardo assorto e malinconico, e a lei scappò un “e tu?” sussurrato, che sottintendeva  “vivi ancora con Lorenza? hai trovato infine ciò che cercavi? ma soprattutto: cosa non ha funzionato tra noi?”  In qualche modo, lui percepì tutte quante le domande.

“Abito sempre con Lorenza e anch’io ho lasciato il mio vecchio impiego. Sai, volevo il denaro, la vita facile, Lorenza me li offrì entrambi. Tu per stare con me avevi sfidato la tua famiglia, avevi rinunciato ad una vita comoda, agli studi, non volevo questa responsabilità. Ma ho rimpianto questa scelta tutti i giorni”. E le raccontò di un primo anno vissuto  girando l’America in lungo e in largo  (giusto mentre io colavo a picco affogando tra innumerevoli perché e cercavo faticosamente di raccogliere i cocci, pensò lei), e dell’incidente che Lorenza ebbe a Miami, guidando una sera che era un pò su di giri. Galera evitata grazie a conoscenze ed abili avvocati, ma nessun medico, né in America né in Italia, riuscì ad evitarle la sedia a rotelle sulla quale finì a causa di una complessa ed irrimediabile frattura del bacino. Le raccontò dei mesi trascorsi girando vanamente per cliniche varie, mentre la figlia ventenne di Lorenza scappava di casa insieme ad un tossicodipendente di cui rimase incinta.

Lei ascoltava con una sensazione di lieve straniamento (il Porto?), e non poteva fare a meno di sentirsi a disagio per gli accidenti che gli aveva tirato nel corso degli anni – non così pesanti, comunque.

“Ora la figlia di Lorenza vive in comunità a San Patrignano, dove si è fermata dopo la disintossicazione, mentre sua madre ha venduto la casa di Montecarlo per investire nella galleria d’arte che possedeva quando ci siamo conosciuti, e della quale mi ha affidato la direzione. In pratica, mi paga un lauto stipendio per assicurarsi che torni a casa, ben sapendo di non poter contare sulla mia fedeltà. Ha bisogno di me, ed ora sono in trappola”.

” Bé, non c’è gabbia più robusta di quella che uno si costruisce attorno con le proprie mani. E poi dai, ti sei venduto come un cagnolino da esposizione, non potevi pensare che non ci fosse un prezzo da pagare, no?” Aveva parlato con tono tagliente, e lui si era ritratto con un’espressione ferita. “Non mi concedi nessuna attenuante?”

“Vedi, mentre tu ti godevi l’America dopo avermi  mollata in quel miserabile monolocale dove vivevamo, del quale comunque non potevo permettermi l’affitto con il lavoro part time che avevo, io ho girato per Milano per alcuni mesi, ospite temporanea di qualche amica compassionevole o più disperata di me, apprendendo e perfezionando l’arte della profanazione di me stessa. Fino a provarne disgusto. Allora sono tornata con la coda tra le gambe dai miei e ho cercato di ricucire un rapporto che avevo lacerato. Per stare con te. Che a trentatré anni e dopo tre di convivenza, mi hai lasciata per una quarantacinquenne imbottita di soldi, che ti ha comprato pagandoti un tanto al chilo. Io avevo ventitré anni. Perché è questa la nostra storia, Nando. Ho pagato tutto anch’io, forse non ho ancora smesso. Credi davvero che potrei concederti delle attenuanti?”

Si erano alzati entrambi, e stavano l’uno di fronte all’altra, lei gli aveva sibilato in faccia le ultime frasi con cattiveria ma anche con un senso di liberazione – ecco, quante notti ho sognato di potergli sputare addosso tutto questo rancore?

Lui la guardava, il respiro leggermente affannoso, le afferrò le mani e  disse “Era amore, con te, l’ho rinnegato, ma era amore! Non c’è stato giorno che non mi sia maledetto per quello a cui avevo rinunciato…”

Lei pensò solo “sleale. dovevo aspettarmelo” poi capì che anche stavolta doveva andare fino in fondo.

Trattenne le sue mani e lo attirò verso di sé.

Si cercarono con rabbia, con l’intento di ferire e di ferirsi, ritrovarono loro malgrado gesti e parole, musica e calore, si aggrapparono al ricordo  e si lasciarono andare.

Doveva essersi appisolata, la riscosse il rumore di Milano che si svegliava in una domenica mattina d’inverno. Un debole chiarore grigiastro filtrava dalle tapparelle della camera da letto.

Lui  era accanto a lei, e la guardava, appoggiandosi ad un gomito.

“Non ti rivedrò più, è vero?”    “Non mi rivedrai più”.  La guardò a lungo, la baciò sulla fronte, le girò le spalle e cominciò a rivestirsi.  Lei guardò la sua schiena e i capelli castani e ondulati che scendevano morbidamente sul collo, e provò un leggero dispiacere. Lui uscì di casa senza più dire nulla.

Lei non riusciva a capire come si sentiva. Dopo un poco si alzò, si infilò una tuta ed un piumino ed uscì di casa. Aveva bisogno di aria fresca e di camminare. Pensò che non aveva mai rinnegato quell’amore, ma era arrivato il momento di conservarne solo il ricordo, rompendo il legame emotivo provocato dal rimpianto: inutile rimpiangere ciò che non esiste più.

All’improvviso si sentì sola,  senza più quel costante, inconsapevole dolore che le aveva tenuto compagnia durante tutti quegli anni e capì che era davvero finita. Era libera. Avrebbe finalmente smesso di girare attorno a un un grumo di sofferenza, e sarebbe andata avanti: verso altre storie, altri posti, sicuramente altre delusioni. Avrebbe affrontato tutto, era pronta.

Pensò che più tardi avrebbe cambiato le lenzuola e spalancato le finestre di casa, poiché aveva bisogno di rituali da compiere, poi avrebbe fatto una doccia. Ma più tardi: voleva conservare ancora per un pò l’odore sulla pelle.